Uso improprio dei permessi legge 104: licenziamento legittimo

La legge 104/92 consente al lavoratore dipendente, pubblico o privato, di fruire di più giorni di permesso retribuiti per assistere il familiare disabile, a condizione che quest’ultimo non sia ricoverato a tempo pieno.

Ogni altro utilizzo dei permessi ex lege 104, così come l’abuso dei permessi, può comportare il licenziamento disciplinare. Se il dipendente utilizza i permessi legge 104, in modo continuativo, per meri scopi personali o per attività diverse dall’assistenza al familiare handicappato, fa un uso improprio e/o un abuso dei permessi rilasciati ex art. 33 Legge 104 ed è passibile di licenziamento.

Per il nostro ordinamento, l’abuso dei permessi legge 104, o il loro uso improprio, non rappresenta una condotta illegittima solo nei confronti del datore di lavoro, ma altresì nei confronti dell’Ente Di Previdenza e del Sistema Sanitario Nazionale (truffa ai danni dello Stato).

Più volte la Cassazione si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento inflitto al dipendente che, assente in permesso legge 104, si dedicava, anche solo in parte, ad attività non direttamente riferibili alla cura e all’assistenza del disabile.

La Cassazione, anche con la sentenza 17968 del 13.09.2016, ribadisce che: “In tema di esercizio del diritto di cui all’art. 33, comma 3, L. 104/92, la fruizione del permesso da parte del dipendente deve porsi in nesso causale diretto con lo svolgimento di un’attività identificabile come prestazione di assistenza in favore del disabile per il quale il beneficio è riconosciuto, in quanto la tutela offerta dalla norma non ha funzione meramente compensativa e/o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per un’assistenza comunque prestata. L’uso improprio del permesso può integrare, secondo le circostanze del caso, una grave violazione intenzionale degli obblighi gravanti sul dipendente, idonea a giustificare anche la sanzione espulsiva“.

La sentenza n. 17968 pubblicata il 13 settembre 2016, pertanto, ribadisce la legittimità del licenziamento di una dipendente comunale che aveva fruito dei permessi ai sensi dell’Art. 33 Legge 104/92 per andare a Milano e frequentare le lezioni universitarie anziché per assistere la madre disabile.

Aggiunge la Corte che i “permessi devono essere fruiti, dunque, in coerenza con la loro funzione. In difetto di tale nesso causale diretto tra assenza dal lavoro e prestazione di assistenza, devono ritenersi violati i principi di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo. Tanto rileva anche ai fini disciplinari, pure a prescindere dalla figura dell’”abuso di diritto, che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell’unione europea (art. 54), dimostrandosi cosi il suo crescente rilievo nella giurisprudenza europea“. In caso di abuso Legge 104, pertanto, il dipendente infedele rischia il licenziamento per giusta causa e la denuncia per truffa ai danni dello Stato (Sistema Sanitario Nazionale ed Ente Previdenziale), nonché di vedersi decadere tutti i benefici concessigli in virtù della Legge 104, e di dover restituire tutte le somme ingiustamente percepite sino a quel momento.

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Di seguito il testo della sentenza Civile Sez. Lav. 17968/2016:

SENTENZA

sul ricorso 11499-2015 proposto da: L. P. C.F. L**P**67*62*463*, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARCELLO PRESTINARI 13, presso lo studio dell’Avvocato MASSIMO PALLINI, che la rappresenta e difende unitamente all’Avvocato GIACOMO AGAPITO LUDOVICI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

CONTRO

COMUNE DI VILLAFRANCA DI VERONA C.E. 00232070235, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI 24, presso lo studio dell’Avvocato MARIA STEFANIA MASINI, rappresentato e difeso dall’Avvocato CRISTINA URSOLEO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 717/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 03/03/2015, R.G. N. 736/2013; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/06/2016 dal Consigliere Dott. Daniela BLASOTTO; udito l’Avvocato MASSIMO PALLINI; udito l’Avvocato CRISTINA URSOLEO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PAOLA MASTROBERARDINO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 717/14, ha confermato la pronuncia di primo grado con cui era stata respinta l’impugnativa del licenziamento intimato a L. P. dal Comune di Villafranca di Verona. 2. Alla dipendente era stato contestato di avere utilizzato, nel primo trimestre del 2012, complessivamente n. 38 ore e 30 minuti di permesso ai sensi dell’art. 33 L. 104/92, fruiti per finalità diverse dall’assistenza alla madre disabile, e specificamente per recarsi a Milano a frequentare le lezioni universitarie di un corso di laurea. 3. La Corte distrettuale ha osservato: a) che la fruizione dei permessi, comportando un disagio per il datore di lavoro, giustificabile solo a fronte di un’effettiva attività di assistenza e l’uso improprio del permesso costituisce grave violazione intenzionale degli obblighi gravanti sul dipendente; b) che la tutela offerta dalla L. 104/92 non ha funzione di ristoro compensativo delle energie spese per l’accudimento del disabile; c) che i fatti erano risultati dimostrati alla stregua delle risultanze delle indagini di P.G., in relazione all’attività di osservazione e pedinamento compiuta nelle giornate di fruizione dei permessi; d) che non poteva trovare accoglimento la tesi della lavoratrice secondo cui l’attività assistenziale veniva svolta di sera, al rientro da Milano: da un lato, l’attività di assistenza deve essere necessariamente svolta in coincidenza temporale con i permessi accordati, dall’altro, la L. non aveva specificamente allegato/chiesto di provare nel ricorso ex art. 414 c.p.c. di avere comunque prestato assistenza nelle giornate in cui fruiva dei permessi accordati dall’Ente ex art. 33 L. 104/92; e) che la sanzione irrogata era proporzionata ai fatti, stante l’intenzionalità e la consapevolezza della condotta posta in essere: i permessi erano stati sistematicamente fruiti nelle giornate di lunedì e mercoledì dalle ore 11,00 alle ore 13,30/14,00, mentre il martedì la lavoratrice utilizzava i permessi di studio; il ricorso alternato alle due tipologie di permessi nei tre giorni nei quali si tenevano le lezioni del corso universitario dimostrava la piena consapevolezza, da parte della lavoratrice, di fare un uso improprio dei permessi ex I. 104/92, in quanto deliberatamente utilizzati non per finalità assistenziali, ma per attendere ad altra attività di proprio esclusivo interesse; inoltre la L. era dipendente presso l’ufficio del personale e quindi sicuramente consapevole degli specifici istituti contrattuali che disciplinano il rapporto di lavoro; – che la fattispecie integrava l’ipotesi di cui all’art. 3, comma 8, lett. f) del CCNL comparto Regioni-Autonomie Locali dell’11.4.2008, che sanziona le gravi violazioni intenzionali degli obblighi gravanti sul dipendente, anche nei confronti di terzi. 4. Per la cassazione di tale sentenza ricorre L. P. con tre motivi. Resiste il Comune con controricorso. La ricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 33, comma 3, L. n. 104/1992, dapprima modificato dall’art. 19 L. n. 53/2000, poi sostituito dall’art.24, comma 1, lett. a) L. n. 183/2010 e, da ultimo, ulteriormente modificato dall’art. 6, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 119/2011. La Corte di appello aveva erroneamente ritenuto che l’attività di assistenza al disabile dovesse essere prestata in coincidenza temporale con la fruizione dei permessi accordati dal datore di lavoro. Se tale requisito fosse stato richiesto, il legislatore lo avrebbe espressamente previsto. La legge n. 53/2000 ha abolito il requisito della convivenza, mantenendo i requisiti della continuità e della esclusività della assistenza. La legge n. 183/2010 ha eliminato il requisito della continuità dell’assistenza prestata al disabile, mentre è stato istituito il principio c.d. del “referente unico”, secondo cui un solo lavoratore dipendente può godere dei permessi retribuiti per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Dunque, neppure la legge n. 183/2010 ha imposto un obbligo di contemporaneità della prestazione di assistenza al disabile con la fruizione dei permessi. La Circolare n. 13/2000 del Dipartimento della Funzione Pubblica, nell’individuare nell’unico referente per ciascun disabile il soggetto che assume il ruolo e la connessa responsabilità di porsi quale punto di riferimento della gestione generale dell’intervento, assicurandone il coordinamento e curando la costante verifica della rispondenza ai bisogni dell’assistito, ha delineato un ruolo di responsabilità nella gestione e coordinamento dell’assistenza al disabile, ma non ha prescritto che tale ruolo debba essere assolto in coincidenza temporale con la fruizione dei permessi. La ratio della norma è da ravvisare in una funzione non direttamente strumentale, ma “compensativa” delle cure ed incombenze prestate in momenti temporali diversi dalla fruizione del permesso. In altri termini, si intende sgravare parzialmente il lavoratore da una porzione della sua obbligazione di lavoro per compensare il suo tempo libero personale che impegna nel prestare attività di assistenza al disabile e dunque recuperare, attraverso il riposo, le energie spese per l’assistenza in tempi diversi da quelli per cui il permesso è stato richiesto al datore di lavoro. A fronte di tale ratio dell’istituto, il Comune avrebbe potuto legittimamente adottare il licenziamento soltanto se fosse stato accertato in giudizio che la L. non aveva prestato con continuità e personalmente assistenza alla madre malata anche in orari diversi da quelli di fruizione dei permessi. RG 11499/2015 2. Con il secondo motivo si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c., 244 c.p.c., 2697 c.c., 2729 c.c. e dell’art. 5 L 15 luglio 1966 n. 604. La Corte di appello ha affermato che, anche ove fosse ritenuta corretta l’interpretazione proposta dalla ricorrente, in ogni caso non era stato specificamente allegato nel ricorso ex art. 414 c.p.c. che la L. aveva sempre prestato, nelle giornate in cui fruiva dei permessi, assistenza alla madre in orario serale al rientro da Milano. Tale affermazione era erronea, essendo stato formulato un capitolo di prova specificamente diretto a dimostrare che “pressoché tutte le sere” ciò era avvenuto. Inoltre, era stato allegato agli atti il verbale dell’udienza di escussione dei testi nel giudizio penale, da cui risultava che la ricorrente aveva prestato quotidianamente assistenza alla madre gravemente malata. Tali risultanze erano state del tutto trascurate dai Giudici del lavoro di primo e di secondo grado. 3. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 3 CCNL Regioni ed Enti Locali dell’11.4.2008 in tema di proporzionalità e gradualità delle sanzioni. In particolare, era stato trascurato l’elemento soggettivo della buona fede. La normativa sui permessi per l’assistenza ai disabili nulla dice a proposito della necessità di prestare assistenza in concomitanza temporale con la fruizione dei permessi presso l’ente di appartenenza, né si esprimono in tal senso le circolari interpretative degli organi pubblici deputati. La ratio della norma fa propendere, con notevole grado di certezza, per la funzione compensativa della stessa. Nel quadro di incertezza interpretativa non può ritenersi presente quell’elemento intenzionale sulla cui sussistenza e particolare intensità viene fondato il provvedimento espulsivo. La buona fede della dipendente emergeva, inoltre, proprio dai tempi e dalle modalità di fruizione dei permessi: infatti, l’Amministrazione aveva concesso alla ricorrente di godere dei tre giorni di permesso ex art. 33 L. n. 104/92 distribuendo le ore corrispondenti sull’arco di tutto il mese, fruendo dei permessi tutti i lunedì e mercoledì dalle ore 11 alle ore 13,30; contemporaneamente la lavoratrice aveva ottenuto di godere di 150 ore di permessi studio nello stesso trimestre il martedì, sempre dalle ore 11, alle ore 13,30, motivando la richiesta con l’esigenza di frequentare le lezioni di un corso di laurea. 4. Il ricorso, in tutte le sue articolazioni, è infondato. 5. L’art. 33, comma 3, L. 104/92, come sostituito dall’art. 24, comma 1, lett. a) della Legge 4 novembre 2010, n. 183, anche a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. 18 luglio 2011, n. 119, per la parte che interessa, così detta: “A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità..(…).”. L’art. 24 della L. n. 183/2010, al comma 1, lett. c), ha aggiunto, all’art. 33 della L. 104/92, il seguente comma 7 – bis: “Ferma restando la verifica dei presupposti per l’accertamento della responsabilità disciplinare, il lavoratore di cui al comma 3 decade dai diritti di cui al presente articolo, qualora il datore di lavoro o l’INPS accerti l’insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti. Dall’attuazione delle disposizioni di cui al presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. 5.1. La ratio della norma di cui all’art. 33, comma 3, della Legge n. 104/92 emerge dalla piana lettura del testo normativo. Il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa spetta al “lavoratore dipendente … che assiste persona con handicap in situazione di gravità…”; esso è riconosciuto dal legislatore in ragione dell’assistenza, la quale è causa del riconoscimento del permesso. Tale essendo la ratio del beneficio e in mancanza di specificazioni ulteriori da parte del legislatore, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile. 5.2. Nessun elemento testuale o logico consente di attribuire al beneficio una funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza prestata al disabile. Tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto, come nel caso in esame (l’accertamento del giudice di merito ha evidenziato che i permessi erano sistematicamente utilizzati dall’odierna ricorrente per proprie esigenze personali, in situazioni di tempo e di luogo incompatibili con l’espletamento dell’assistenza), non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto, come già ritenuto da questa Corte in precedenti analoghi. 6. Alla luce dell’orientamento di questa Corte, che si condivide ed al quale si intende dare continuità (Cass. n. 4984/2014, conf. Cass. n. 9217/2016, n. 9749/2016 e n. 8784/2015), il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 L. n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi dell’abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale. 7. I permessi devono essere fruiti, dunque, in coerenza con la loro funzione. In difetto di tale nesso causale diretto tra assenza dal lavoro e prestazione di assistenza, devono ritenersi violati i principi di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’Ente assicurativo. Tanto rileva anche ai fini disciplinari, pure a prescindere dalla figura dell’”abuso di diritto, che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell’unione europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza europea” (Cass. n. 9217/2016). 8. Quanto all’integrazione dei presupposti di legittimità del licenziamento intimato all’odierna ricorrente, va ricordato che la giusta causa è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici (Cass. n. 8254 del 2004, n. 5095/2011 e, da ultimo, Cass. 6498/2012). L’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma c.d. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – mediante riferimento alla “coscienza generale”, è sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale (Cass. n. 9266 del 2005, v. pure Cass. n. 4984/2014). 9. Al riguardo, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione di tali regole di giudizio. Nella sentenza impugnata ha dato conto delle ragioni poste a fondamento della decisione, valorizzando, ai fini della valutazione della gravità della condotta, il carattere sistematico e la preordinazione nell’utilizzo improprio dei permessi, elementi anche sintomatici dell’intensità dell’elemento psicologico. Trattasi di circostanze idonee a integrare il precetto normativo della giusta causa. 9.1. Difetti, oltre al disvalore sociale del comportamento, insito nello sviamento dalla funzione di assistenza del familiare, rilevano sia la consapevolezza dell’uso improprio, insita nel fatto di avere avanzato una richiesta di frazionamento dei permessi strumentale al soddisfacimento di esigenze personali, prive di qualsiasi nesso con la prestazione di assistenza, sia il carattere continuativo dell’uso indebito, che ne esclude qualsiasi connotazione di eccezionalità o occasionalità. 9.2. Né potrebbe rilevare, ai fini dell’attenuazione della portata dell’elemento soggettivo, la circostanza che l’Amministrazione abbia accordato il frazionamento richiesto, non potendo da ciò presumersi la consapevolezza, da parte datoriale, dello sviamento dalla funzione di assistenza. La conoscenza dei fatti si è avuta, come accertato dai giudici di merito, solo all’esito delle indagini di polizia giudiziaria. In conclusione, l’intenzionalità rileva solo in ragione del comportamento posto in essere, il quale è integrato da una condotta sostanzialmente abusiva. 9.3. Quanto al presunto affidamento che si asserisce indotto da interpretazioni contenute in circolari ministeriali o desumibili da altre fonti non meglio precisate, trattasi di circostanze cui la Corte di appello non fa cenno nella sentenza impugnata e che, pertanto, devono ritenersi allegazioni nuove e come tali inammissibili ex art. 366 c.p.c.. 9.4. Secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, invero, qualora una determinata questione giuridica non risulti trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cessazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 2 aprile 2004 n. 6542, Cass. Cass. 21 febbraio 2006 n.3664 e Cass. 28 luglio 2008 n. 20518). 10. In conclusione, va enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di esercizio del diritto di cui all’art. 33, comma 3, L. 104/92, la fruizione del permesso da parte del dipendente deve porsi in nesso causale diretto con lo svolgimento di un’attività identificabile come prestazione di assistenza in favore del disabile per il quale il beneficio è riconosciuto, in quanto la tutela offerta dalla norma non ha funzione meramente compensativa o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per un’assistenza comunque prestata. L’uso improprio del permesso può integrare, secondo le circostanze del caso, una grave violazione intenzionale degli obblighi gravanti sul dipendente, idonea a giustificare anche la sanzione espulsiva”. 11. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del Divi. 10 marzo 2014, n. 55. 12. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova applicazione nella fattispecie, applicandosi ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali e in Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.

Roma, così deciso nella camera di consiglio del 21 giugno 2016

Il Consigliere est.

Il Presidente

 

 

 

 

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